Bisogna guardare al di là del sintomo
Intervista a Ivan Pierotti, Presidente Medical Center Merano, poliambulatorio gestito sotto forma di cooperativa sociale.
Dr. Pierotti, com’è nata l’idea di associarsi in un poliambulatorio e cosa comporta?
I poliambulatori da noi in Alto Adige sono già pochi, perché c’è più la tradizione della casa di cura gestita in famiglia. Ma i poliambulatori gestiti con la forma di cooperativa sociale, sono ancora meno. Però noi abbiamo proprio scelto questa forma amministrativa perché ci crediamo. In una cooperativa a fine anno non si dividono gli utili fra i soci ma si devono reinvestire nella struttura. Questo va a vantaggio dell’innovazione, della formazione e quindi anche a vantaggio dell’utente finale, che è il paziente.
Da quando siete una cooperativa?
Noi siamo una cooperativa sociale dal 2015. L’idea è nata da una serie di esperienze che avevo maturato sia in ambito di sanità pubblica che privata e dall’esigenza di creare un poliambulatorio privato che non fosse influenzato dai margini di profitto.
Com’è andata esattamente?
È stato un progetto complesso perché siamo partiti con relativamente pochi soldi e nella sanità l’investimento iniziale è veramente alto per via dei macchinari. Eravamo ancora poco informati a livello amministrativo, ma credevamo nel concetto di cooperativa. Poi ci siamo fatti seguire dalla nostra associazione di rappresentanza. Grazie alla loro esperienza con la realtà delle cooperative abbiamo potuto richiedere i fondi di sostegno e così abbiamo avuto la possibilità di investire in attrezzature che altrimenti non ci saremmo potuti permettere.
A parte la forma societaria di gestione, che cosa cambia in un poliambulatorio cooperativa sociale?
In questi anni abbiamo cercato di reinvestire sempre in specialità che da noi non sono tanto diffuse e che rappresentano una lacuna nel paesaggio della sanità locale. Inoltre cerchiamo di offrire un servizio in cui gli specialisti non lavorano a compartimenti stagni ma comunicano fra di loro. Perché ogni persona è più del sintomo che presenta. Una persona non è un ginocchio rotto o una gastrite, ma un sistema complesso. Purtroppo spesso nella sanità si incontra una terapia basata sul sintomo, una terapia prescrittiva. Si pensa in termini di singola visita che risolve il sintomo prescrivendo medicinali. Però non si approfondisce la causa sottostante e si cura solo il sintomo, si creano pazienti cronici, consumatori a lungo termine di farmaci. Curare è un’altra cosa.
Cioè, come si può adottare un altro approccio?
Bisogna pensare non in termini di singola visita, bensì di percorso terapeutico personalizzato, che risolve la causa sottostante al sintomo. Per fare questo, è fondamentale che lo specialista dedichi tempo al paziente. Per fare una diagnosi accurata non si guarda solo al sintomo, ma bisogna capire bene chi si ha di fronte. E ciò non si può capire con una visita di 10 minuti. Se si seguono solamente protocolli standardizzati invece di vedere e ascoltare il paziente che abbiamo di fronte, non riusciamo a risolvere il suo particolare problema.
C’è bisogno di più tempo e più ascolto dedicato al paziente?
Sì, ed è anche importante che il rapporto fra medico e paziente sia un incontro fra pari. La diagnosi non dev’essere una sentenza dall’alto e la cura dev’essere concordata con il paziente, non prescritta e basta. Un paziente che è stato coinvolto, sicuramente sarà più collaborativo. Il paziente che è stato informato, perché il medico si è preso il tempo di spiegargli, farà un percorso terapeutico completamente diverso. Ma bisogna parlare il più possibile con il paziente, perché può essere che fra le righe di quello che dice il paziente ci siano indizi rilevanti anche a livello medico, che invece il paziente magari non aveva riconosciuto come tali.
E invece non è cosi?
No, purtroppo no. Sia nella sanità pubblica, sia in quella privata si seguono protocolli rigidi e le visite in media sono troppo corte per essere approfondite e personalizzate. Io sono un grandissimo sostenitore della sanità pubblica, ma questa che abbiamo oggi non è affatto “a servizio del pubblico”. Purtroppo non tutti si rendono conto che da quando nella sanità siamo passati da USL ad ASL , il sistema ha iniziato a girare proprio come un’azienda, e quindi vengono prese decisioni in funzione dei numeri, degli investimenti e della politica, non del servizio al paziente.
Come avete vissuto il periodo di emergenza Covid-19?
Consideri che ci eravamo appena trasferiti nella nuova struttura del Medical Center, l’avevamo inaugurata il 29 febbraio e una settimana dopo c’è stato il lockdown. Durante l’ermergenza Covid-19 abbiamo proposto a titolo gratuito l’utilizzo della nostra struttura per andare avanti con le attività e le visite non-Covid urgenti. Non abbiamo chiuso neanche un giorno, siamo andati avanti con tutti i presidi necessari, bardati da capo a piedi: tute, maschere, visiere, guanti. Però devo sottolineare che sono stati applicati due pesi e due misure fra sanità pubblica e privata: noi abbiamo avuto continuamente controlli dei NAS e della Guardia di Finanza. Non hanno mai trovato nulla da contestare perché da noi c’era sempre tutto il necessario, anche quando nell’ospedale pubblico invece iniziavano a scarseggiare i materiali di protezione per i dipendenti. Quindi per quanto riguarda i controlli, le forze dell’ordine ci sono stati molto più con il fiato sul collo che ai colleghi del pubblico, per quanto riguarda invece la considerazione statale relativa agli operatori impiegati durante la pandemia, si è fatto tanto, anche se non abbastanza, per il personale sanitario pubblico ma pochissima considerazione per quello che lavora nel privato. Basti pensare agli screening per valutarne lo stato di salute: noi ci siamo dovuti arrangiare. Anche per i riconoscimenti dei crediti ECM siamo ai due pesi e due misure.
Voi nel poliambulatorio avete anche specialisti di psicoterapia. Avete già notato delle ripercussioni dell’emergenza Covid sul numero delle richieste di assistenza psicologica?
Si vede tantissimo la differenza, non serve lavorare in un poliambulatorio per vederlo, basta guardarsi in giro per strada, parlare con le persone o leggere i social. Purtroppo però l’aspetto psicologico è da sempre poco considerato, viene visto come un problema secondario. Di questo se ne vedranno le conseguenze col tempo anche se già il numero di suicidi dovrebbe risultare allarmante. Sicuramente ci sarà un gran bisogno di assistenza piscologica in futuro, a cui le strutture pubbliche ad oggi non sono preparate.